Un cuscino, con questo caldo

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[Picasso – Donna dai capelli gialli]

Non ci sentiamo da circa un mese. Oggi C. mi ha mandato una foto, un mio conoscente è nel suo stesso viaggio organizzato ed eccoli là tutti e due all’aeroporto, nella mia chat whatsapp. Sono andata a curiosare sul profilo Fb del mio conoscente per vedere se aveva parlato del viaggio, se avrei potuto sospettarlo, e oltre alla risposta – sì, ma non avevo visto i suoi post – ho trovato questa poesia della Signora dei Calzini, che mi è molto piaciuta. E che parla di noi:

mi sei stato
come cuscino

la curva fragile
del mio collo
tu
l’hai avuta fra le mani

il mio peso
tu
l’hai avuto su di te
tutto

nudo senza difesa nudo
il mio corpo
tu
l’hai sostenuto
con il tuo corpo

sai
dove spezzare il mio respiro
perché si faccia pianto
apnea

tu
che mi sei stato
come cuscino

ora
ricorda
accogli
non ferire
non soffocare

è indifeso ancora
il mio sonno
anche se non sei più tu
a custodire

Le persone che non amiamo

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«Devo molto
a quelli che non amo.

Il sollievo con cui accetto
che siano più vicini a un altro.

La gioia di non essere io
il lupo dei loro agnelli.

Mi sento in pace con loro
e in libertà con loro,
e questo l’amore non può darlo,
né riesce a toglierlo.

Non li aspetto
dalla porta alla finestra.
Paziente
quasi come una meridiana,
capisco
ciò che l’amore non capisce,
perdono
ciò che l’amore mai perdonerebbe.

Da un incontro a una lettera
passa non un’eternità,
ma solo qualche giorno o settimana.

I viaggi con loro vanno sempre bene,
i concerti sono ascoltati fino in fondo,
le cattedrali visitate,
i paesaggi nitidi.

E quando ci separano
sette monti e fiumi,
sono monti e fiumi
che trovi sui ogni atlante.

È merito loro
se vivo in tre dimensioni,
in uno spazio non lirico e non retorico,
con un orizzonte vero, perché mobile.

Loro stessi non sanno
quanto portano nelle mani vuote.

“Non devo loro nulla” –
direbbe l’amore
sulla questione aperta.»

Wislawa Szymborska

Ho appena scoperto questa poesia. Parla delle persone che non amiamo – sembra riferirsi a quelle che non hanno mai suscitato il nostro amore, ma potrebbe includere quelle che non amiamo più – ma su di me ha anche l’effetto di ricordarmi perché le mie relazioni con gli altri – anche di amicizia – sono fondate su un irrinunciabile distacco, su una indispensabile “sacrificabilità del rapporto” proprio per perseguire quella pace che dà solo il mancato coinvolgimento su un piano più profondo. Ho solo amici così? No, ma forse solo A. non rientra in questo schema, e con lui non ho un dialogo equilibrato per via dei nostri trascorsi adolescenziali. Mi viene anche da pensare alla “teoria della sublimazione”, del riversare gli amori mancati in arte e talenti vari, e a volte gli amori mancati “mancano” perché uno è incapace di amare, di scendere dal piedistallo, di capire cosa cerca: e non si troverà mai ciò che si desidera, se non si è capito cosa si desidera.

Fake new continents

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Safe sex

If he and she do not know each other, and feel confident
they will not meet again; if he avoids affectionate words;

if she has grown insensible skin under skin; if they desire
only the tribute of another’s cry; if they employ each other

as revenge on old lovers or families of entitlement and steel—
then there will be no betrayals, no letters returned unread,

no frenzy, no hurled words of permanent humiliation,
no trembling days, no vomit at midnight, no repeated
apparition of a body floating face-down at the pond’s edge.

from White Apples and the Taste of Stone di Donald Hall

Ieri è morto Donald Hall, poeta statunitense che non conoscevo, descritto in alcuni degli articoli che mi sono comparsi su Facebook come “il miglior poeta contemporaneo ancora in vita” e cose simili. Ho cercato qualche sua poesia. Ho voglia di poesia d’amore in questo periodo, quindi forse non sono abbastanza equilibrata per giudicare il suo stile nell’insieme, ma mi è piaciuta questa poesia qui sopra, Safe Sex. Mentre cercavo sue poesia, mi è capitata una cosa: tra i primi risultati della ricerca, quelli di Google Immagini messi in alto, ho visto una poesia che si chiama “Soon enough”. All’inizio ho pensato che fosse sua, e mi piaceva molto.

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Ho alzato gli occhi dal telefono e ho pensato: “Accidenti, ho trovato un altro poeta che mi parla al cuore”, in un lungo momento di contemplazione in cui mi sono goduta la sensazione di scendere dalla mia caravella e mettere piede su un nuovo continente. Mi sono ricordata che ci sono infinite cose da scoprire.

Poi ho cercato la raccolta di poesie di Donald Hall a cui apparteneva questa poesia. E ho scoperto che è una poesia anonima, nient’affatto attribuita a Donald Hall ma solo posizionata in alto da Google Immagini quando ho cercato poesie di Donald Hall  (!).

La delusione c’è stata, ma – oltre alla storia del nuovo continente – c’è anche una lezione imparata, qui. Arrivata troppo tardi per capire quanto meno mi sarebbe piaciuta questa poesia se non avessi pensato che era di un poeta contemporaneo estremamente apprezzato, resta comunque una buona lezione sull’oggettività e sul pregiudizio (che non esiste).

Chiudo con il testo di Unravel di Bjork, che ho scoperto per caso (grazie, The Serendipity Periodical!), che arriva in periodo di Islanda (in senso proprio e in senso figurato per “inverno interiore”) e quindi di C. (il suo concerto a Roma è l’ultima cosa di cui abbiamo parlato prima di dirci che non ci saremmo scritti più).

While you are away
My heart comes undone
Slowly unravels
In a ball of yarn
The devil collects it
With a grin
Our love
In a ball of yarn
He’ll never return it
So when you come back
We’ll have to make new love
He’ll never return it
When you come back
We’ll have to make new love
While you are away
My heart comes undone
Slowly unravels
In a ball of yarn
The devil collects it
With a grin
Our love, our love,
In a ball of yarn
He’ll never

 

Accontentarsi di uno spiraglio

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Oggi un post di The Serendipity Periodical mi ha messo sotto gli occhi una frase tratta da un racconto di J.D. Salinger:

“Lei non stava facendo nulla che io potessi vedere, eccetto stare li in piedi appoggiata alla ringhiera del balcone, tenendo insieme l’universo”
Da “A girl I knew”

Sono andata a cercarmi il racconto, e l’ho trovato in versione integrale qui.

Mi è piaciuto molto. Trovo che sia scritto molto bene, che abbia diversi spunti molto poetici e che abbia un ritmo studiato molto bene, anche se per tutta la lettura non riuscivo a superare un certo malessere per la tipologia di ragazza “angelica” appiattita sui suoi doveri. Di tanto in tanto però Salinger apre uno spiraglio su questo appiattimento:

“She then looked up at me, and though she seemed decorously startled, something told me she wasn’t too surprised that I had heard her doing the Boswell number. This didn’t matter, of course.”

“Leah seemed to think it would be perfectly all right if she came up to see me.”

“Then Leah would walk, self-consciously but beautifully, to my window seat, sit down, and wait for our conversation to begin.”

“She answered slowly, without looking at me, “I don’t know.””

E fa un po’ “effetto Jane Austen”, dopotutto, per cui all’improvviso il più “piatto” dei due personaggi diventa l’Io narrante. Ormai sento pesare la stanchezza di dover ogni volta giustificare le scelte di definizione del personaggio di autori del passato con il loro contesto culturale, ma sembra che questa stanchezza sia il prezzo da pagare per percepire una complessità presente anche dove sarebbe più semplice passare la carta vetrata della contemporaneità.

Tra i passi esteticamente più riusciti del racconto, credo ci siano:

“Probably for every man there is at least one city that sooner or later turns into a girl. How well or how badly the man actually knew the girl doesn’t necessarily affect the transformation. She was there, and she was the whole city, and that’s that.”

“My phonograph was not playing. But suddenly the words to Miss Boswell’s song floated, just slightly damaged, through my open window”

“I could fill several pages with Leah’s and my terrible conversation. But I don’t see much point to it. We just never said anything to each other. Over a period of four months, we must have talked for thirty or thirty-five evenings without saying a word. In the long shadow of this small, obscure record, I’ve acquired a dogma that if I should go to Hell, I’ll be given a little inside room – one that is neither hot nor cold, but extremely drafty – in which all my conversations with Leah will be played back to me, over an amplification system confiscated from Yankee Stadium.”

“When she sat down, she did the only sensible thing with her beautiful hands there was to be done: she placed them on her lap and left them there. ”

“We sat for a long moment without looking at each other. When I looked at Leah again, her beauty seemed too great for the size of the room. The only way to make room for it was to speak of it. “Sie sind sehr schön. Weissen Sie dass?” I almost shouted at her.”

Colpo finale: “This story first appeared in Good Housekeeping, February, 1948″

Un messaggio imperiale

“L’imperatore, dicono, ha mandato a te, singolarmente, miserabile suddito, piccola ombra fuggita davanti al sole imperiale nella lontananza più remota, proprio a te l’imperatore, dal suo letto di morte, ha mandato un messaggio. Fece inginocchiare il messaggero accanto al letto e gli sussurrò il messaggio nell’orecchio: tanto gli stava a cuore il contenuto, che se lo fece ripetere, a sua volta, nell’orecchio. Confermò con un cenno del capo l’esattezza delle parole. E davanti a quelli che assistevano alla sua morte – tutti i muri che sono d’impedimento vengono abbattuti; su ampie, vertiginose gradinate, stanno, tutt’intorno, i grandi dell’Impero – davanti a tutti congedò il messaggero. Il messaggero si mise subito in cammino: un uomo vigoroso, instancabile. Avanzando ora un braccio, ora l’altro, s’apre la strada traverso la folla, se incontra resistenza accenna al petto, che reca il segno del sole: e così avanza, leggero come nessuno. Ma la folla è immensa, le sue dimore sterminate. Come volerebbe, se avesse via libera! Udiresti subito la stupenda risonanza dei suoi pugni contro la tua porta. Invece, si affatica invano; ancora continua ad affannarsi traverso le stanze del palazzo interno, dalle quali non uscirà mai. E anche se questo gli riuscisse, non vorrebbe dire nulla: dovrebbe lottare, scendendo le scale. E se anche questo gli riuscisse, non sarebbe nulla: dovrebbe traversare i cortili; e dopo i cortili, la seconda cerchia dei palazzi; ancora scale e cortili, ancora un palazzo e così di seguito, per millenni. Gli riuscisse di precipitarsi, una volta, fuori dall’ultima porta – ma questo non potrà mai, mai accadere – ecco dinanzi a lui la città imperiale, il centro del mondo, ove sono ammucchiate montagne dei suoi detriti. Nessuno riesce ad avanzare, lì in mezzo, neppure con il messaggio di un morto. Ma tu siedi alla tua finestra e lo sogni, quando viene la sera.”

Da “Racconti” di Kafka

Quante volte ho fatto questo sogno, prima di leggere questo racconto?

Quante persone fanno lo stesso sogno, di un obiettivo semplice che diventa irrealizzabile perché tra inizio e fine si succedono infiniti ostacoli?